ZOÈ GRUNI

 

 

 

 

 

ZOÈ GRUNI
Conversazione con Zoè Gruni
da Camilla Boemio


 

Camilla Boemio: Ci siamo conosciute molti anni fa a Los Angeles, dove hai vissuto per qualche anno, per trasferirti successivamente in Brasile. Sei una nomade dell’arte, capace di interagire con il contesto. Potresti introdurci la scena artistica di São Paulo e di Rio de Janeiro?

Zoè Gruni: São Paulo è una città industriale, una metropoli multiculturale con una realtà artistica vibrante e dinamica. Quando mi trovavo in residenza artistica presso la FAAP (Fundação Armando Alvares Penteado) ho potuto conoscere da vicino la realtà suburbana. È nel periodo delle “Jornadas de Junho” nel 2014 che ho realizzato il Projeto Boitatá. La rivolta popolare, iniziata per contestare l’aumento dei trasporti pubblici, stava dilagando assorbendo il malcontento sociale generalizzato.
Il centro della città era scenario quotidiano di scontri e violente repressioni della polizia. “Boitatá”, nera entità cornuta dal volto coperto, si aggirava fra i palazzi occupati e le banche in fiamme. È in questi momenti di disperazione che l’intolleranza religiosa si manifesta. In occasione della mostra presso la Kunsthalle ci hanno intimato di non passare il video della performance in streaming perché il suono, ideato in collaborazione con un gruppo di musicisti sperimentali di Bahia, conteneva riferimenti alla religione africana del Candomblé e ad Exú (entità Orixá simbolo di protezione erroneamente associata al diavolo dai missionari cristiani). Durante le performances per strada sono stata offesa più volte da adepti della chiesa evangelica, in forte aumento nel paese e che appena un anno dopo avrebbero eretto il Templo de Salomão nella periferia della capitale paulista. Ma la città che mi ha ospitato per la maggior parte del tempo è Rio de Janeiro. La “cidade maravilhosa” è estrema: affascinante quanto violenta. Vanitosa e superficiale, probabile appannaggio dello sfarzo all’epoca dell’Impero, è oggi meta di turismo massivo. Ma sotto la patina brillante si nascondono le contraddizioni, le diverse classi sociali sono continuamente in contrapposizione ed esistono aree di conflitto delimitate da soglie invisibili di ipocrisia. Dietro l’apparente mescola di colori e sorrisi carnevaleschi si nasconde l’intolleranza e il razzismo. È un luogo dove il pericolo è reale e costante e non è permessa protezione se non attraverso il denaro.
Tutte sensazioni latenti fino a quando non sono state uccise, nel mio quartiere, persone che avevo conosciuto. Marielle Franco è una, ma ne esistono molte altre di cui nemmeno sappiamo il nome. La protesta femminista e della comunità LGBTQI+ mi ha coinvolto fino al midollo. Il Brasile, a prescindere dalle differenze interne fra le città, è permeato dalla pesante eredità storica di un paese colonizzato, schiavizzato e torturato fino alla recente dittatura militare. Negli ambiti culturali si fa esplicito il bisogno di esorcizzare la sofferenza e di trasformare questa rabbia in arte. In un momento storico di forte xenofobia e omofobia il corpo diventa un mezzo fondamentale per affrontare temi come l’identità e il genere. Negli ultimi anni varie manifestazioni artistiche sono state censurate, costante è il tentativo di silenziare chi pensa e mette in discussione il sistema. Le minoranze sono attaccate in forma subdola e il numero di omicidi frutto di fanatismo è altissimo.
Esiste attualmente una riflessione sul concetto di “decolonizzazione del pensiero”. Si tratta di un dibattito aperto in cui nuovi filosofi, artisti e attivisti si incontrano per discutere il “lugar de fala”. Un invito a riflettere sulla posizione sociale che noi stessi occupiamo in relazione agli altri e su quanto la storia scritta da uno specifico tipo di persona (uomo etero, bianco europeo) è approvata a priori nella percezione collettiva. L’autoanalisi è importante per collocarsi in quanto soggetto nel mondo e per rispettare la diversità. Questo dibattito mi ha coinvolto in prima persona, mi interrogo sulla mia provenienza e quanto le basi della mia educazione influenzano il mio fare artistico: nel momento in cui mi approprio di simboli locali e globali, quanto il mio rispetto e la mia umiltà sono sufficienti in un momento storico così delicato? Il mio messaggio è abbastanza diretto? Dove iniziano e dove finiscono l’etica e l’autocensura?

Camilla Boemio: Cosa ti ha dato il Brasile?

Zoè Gruni: Il Brasile si è rivelato un incredibile serbatoio di idee e di stimoli, estremamente interessante in termini di ricerca. Ho accumulato un archivio di materiale denso di simboli e significati. Ho scoperto cose che non conoscevo: la saggezza dei popoli indigeni, il bagaglio della cultura africana portato dagli schiavi, il sincretismo religioso, il concetto di antropofagia, la lotta delle minoranze come la resistenza nelle favelas e le organizzazioni autonome, e molto altro. Tutte queste scoperte mi hanno aiutato a eliminare alcuni preconcetti che mi portavo dietro in quanto figlia di una società cattolica radicalmente legata al pudore e al senso di colpa. Inoltre temevo che non fosse possibile essere artista e allo stesso tempo madre e insegnante e invece ho avuto la dimostrazione del contrario e adesso ho una consapevolezza diversa di cosa significa “creare”. Come sosteneva Beuys con estrema semplicità, un artista che insegna è in primo luogo un attivista in quanto sta aiutando un altro potenziale artista a manifestarsi in quanto tale. In questi anni, oltre a produrre ed esporre il mio lavoro in varie istituzioni pubbliche e private, ho insegnato lavorando molto con bambini e adolescenti provenienti da comunità carenti. Ho sentito che il mio contributo è piccolo ma prezioso perché essere artisti oggi è un atto rivoluzionario.

Camilla Boemio: Nei tuoi lavori i diversi elementi sono uniti in combinazioni inaspettate, un labirinto di significati complessi che si legano aprendosi a tutte le direzioni; ricostruendo un archivio di mitologie corali. Parlami della tua ricerca.

Zoè Gruni: La mia ricerca nasce fondamentalmente dal bisogno di esorcizzare la “paura del diverso”. Partendo da una riflessione intima per poi sfociare nella dimensione collettiva, il mio proprio corpo è spesso l’elemento catalizzatore ma si estende agli altri attraverso interazioni di vario genere. Il filo conduttore dei miei progetti è sempre la performance, non si tratta di azioni pensate in forma di spettacolo bensì di un processo in evoluzione costante. Il concetto “Seconda pelle” riassume tutto questo. Lo strato che riveste il nostro corpo può essere un accessorio che lo espone ma allo stesso tempo una corazza che lo protegge, funzionando come filtro fra l’essere umano e il mondo. Questo processo si apre in diverse direzioni e diventa inevitabilmente una presa di posizione politica. La multimedialità (performance, fotografia, disegno, scultura, video, installazione) mi permette di spaziare fra i vari mezzi e lascio che questi si sovrappongano. Valorizzo l’aspetto del lavoro manuale e artigianale come contatto con la dimensione popolare e la ricerca antropologica e sociologica sono diventati sempre più importanti.

Camilla Boemio: Quanto la pratica partecipativa ha importanza nei tuoi progetti?

Zoè Gruni: La pratica partecipativa è fondamentale. “L’altro” diventa un co-protagonista e insieme possiamo creare una “collettività temporanea”. È molto complesso lavorare con l’ego dell’essere umano ma nonostante le difficoltà è esattamente questo che voglio: sperimentare la vita attraverso l’arte.

Camilla Boemio: Nella conversazione abbiamo sottolineato quanto il coraggio sia determinante per un artista. Ogni mostra è una sfida, come suggerisce Glissant, per realizzare nuovi modelli e aprire la discussione a punti di vista che non siano stereotipati. Quanto la tua determinazione è stata fondamentale?

Zoè Gruni: Adoro la parola “sfida”! e credo che per affrontarla esistano due requisiti fondamentali: la curiosità e il coraggio. Camilla Boemio: Quali saranno i tuoi prossimi progetti che si sono auto-generati dalle precedenti mostre?

Zoè Gruni: Segunda pele è un progetto di ricerca sviluppato fra il 2017 e il 2019 presso la EAV (Escola Artes Visuais) del Parque Lage di Rio de Janeiro. Ho proposto a giovani studenti di creare la propria “seconda pelle” ovvero costruire una scultura indossabile con materiali di riciclaggio con l’obiettivo di realizzare una performance. L’incontro umano con questi ragazzi, provenienti da realtà marginalizzate, è stato molto intenso e ha generato un vero e proprio atto di denuncia. Corpi ibridi e trans-mutanti hanno invaso l’inaugurazione della contestatissima mostra Queermuseu. La mostra, censurata a Porto Alegre per accuse di apologia alla pedofilia da parte dei conservatori, è stata riproposta a Rio de Janeiro attraverso una raccolta fondi dello stesso Parque Lage. Il risultato del progetto è un cortometraggio cinematografico e un’installazione-video a due canali, realizzate in collaborazione con il cineasta franco-russo Alexis Zelensky. Tutto il materiale (fotografie, disegni, scritti) sarà raccolto in un libro in attesa di pubblicazione.
Aladina è un omaggio alla resistenza delle donne, un lavoro sulla memoria e la contemporaneità. Aladina è il nome dalla mia prozia, staffetta partigiana durante la resistenza al nazifascismo, morta giovanissima in un piccolo paese della Toscana nel 1944. I paesani sostenevano che fosse stata vittima del forte stress, la tensione e la paura conseguenti alla sua scelta di opporsi. Dopo aver appurato che non esiste nessuna fotografia di Aladina, ho usato il mio corpo come tela per una serie di immagini femminili resistenti in cui diversi simboli globali e temporali si sovrappongono. Queste, entrano in dialogo con i versi della poetessa brasiliana Priscilla Menezes attraverso una installazione sonora in cui voci di donne reali si concretizzano nello spazio.
Fromoso è una video-performance ispirata al concetto di antropofagia. L’azione è stata realizzata in una discarica di carri del carnevale nell’area portuaria di Rio de Janeiro. Il corpo della ballerina cubana Ana Kavalis si abbandona ad un rituale esoterico nel quale viene assorbita fino a scomparire.

Pubblicato 29 Gennaio 2020
http://formeuniche.org/conversazione-con-zoe-gruni/

 

 

 

 

ZOÈ GRUNI
Un copricorpo per il deserto
di Alessandro Raveggi


 

[Questo racconto fa parte di Il grande regno dell’emergenza, da poco uscito per LiberAria].

Probabilmente solo i bambini, che l’attorniavano a mo’ di parata, sapevano giustificare la presenza di quel copricorpo così mostruoso, incoerente, che si aggirava specchiandosi sulle vetrine di vestiti sbarazzini, subwoofer retroilluminati. Il boitatá era un mitico animale delle tradizioni brasiliane che Zoè si era portata con sé in una delle sue numerose vestizioni: un serpente di fuoco che aveva inverato con delle grosse camere d’aria, del caucciù. L’aveva appena tolto dal bagaglio che si era trascinata da Sao Paolo, da poco si aggirava di nuovo per Los Angeles alla ricerca di un posto dove installare le sue radici transitorie d’artista. Quei vestimenti erano infatti anche dei tubi, delle cannule, dalle quali suggere idealmente lo spirito ctonio di un luogo, per appropriarsene con confidenza viscerale. Spesso i piedini di Zoé risultavano impercettibilmente in moto, donandole un’irreale levitazione in quei materiali di riciclo strappati a lande sterminate o a qualche ripostiglio folklorico. Era quella sospensione tutta concreta che attraeva ora i bambini liberati provvisoriamente da degli anziani un po’ cionchi, grosse scarpe mediche ai piedi, che si aggiravano con i nipoti in cerca di un giocattolo che potesse disinnescare la loro smania. Quei nipoti vedevano nel boitatá una sorta di spettro concreto. E oggi quello spettro trascinava con sé un trolley che tutto sommato l’umanizzava. Lei stava deambulando da una parte all’altra del centro commerciale, dopo essere entrata dall’ingresso principale e aver subito sbattuto contro un goffo hot dog umano che pubblicizzava un 3×2 un po’ ingiallito. Lo scontro non aveva provocato che pallore in viso del panino umano, che dalla faccia incastonata tra uno sbaffo di senape e il rosso della salsiccia traballante aveva reagito intuendo che fosse davanti a una campagna pubblicitaria sopra le righe, con protagonista il dragone delle camere d’aria.
Ci sono venditori di biciclette all’interno, forse, era balzato nel suo cervello d’insaccato.
Lei apprezzava sempre più quei luoghi senz’anima dove inserire tanta anima complessa e residuale, quella da lei trasportata in un sacco-caleidoscopio di migrazioni personali.
Adorava pensare che quelle camere d’aria, toccate da lavoratori sottopagati di Rio, intaccate dai tagli a spregio di qualche marmaglia da favela, palpate da un architetto tedesco per un’estrosa opera architettonica green finanziata da un milionario carioca, potessero ora anche solo essere sfiorate dai californiani, dai losangelini, dai latinos contro i quali quelle sfregavano guaendo, individui che la sorpassavano increduli tra le varie scale mobili, dove lei si appoggiava come percorrendo un pensiero complesso, fatto di saliscendi.
Quello di cui era alla ricerca, era un telefono pubblico. E di un innocente telefono per un’importante telefonata intercontinentale, manco l’ombra. Passò vetrine di pellicce, vetrine di scarponcini da sci, fast food di frullati e alette di pollo. Deformi uomini in costume la guardavano storto. Sotto quella loro gommapiuma, pensava lei, c’erano però idealmente gli stessi acquirenti, pronti a farsi inglobare dal concetto della marca, fino a soffocare. Se i centri commerciali erano soglie astratte, zone di decompressione per Zoé, compiere la farsa dell’uomo-hot-dog, dell’uomo-aletta-di-pollo, dell’uomo-ciambella, contribuiva solo a farne un teatro sofferente d’umanità. Nei pressi di una gigante fonte tropicale, che emetteva finti cinguettii – il suo compositore, pensò lei, non aveva chiaramente mai ascoltato gli scoppi e vagiti tormentati degli uccelli brasiliani, che in passato l’avevano anche fin troppo terrorizzata – lei chiese indicazioni a un poliziotto. Quello, all’avvicinarsi di quel dragone tubolare, azzardò a sfoderare la pistola. “Sì, ho bisogno di un telefono, e quindi?”, lo disinnescò sprezzante, un occhio alla canna della pistola, fino a sorpassarlo.
Ottenne solo nuovo sbigottimento da altri a cui chiese aiuto, invano. Quella cattiva accoglienza cominciò a irritarla. Osservò il riflesso di lei boitatá sui vetri opachi del bagno dove si appollaiò per orinare. Valutò che fosse il caso di una nuova investitura, qualcosa che si approssimasse di più al sentire degli acquirenti del luogo. Optò per il jackalope, un ibrido tra antilope e lepre che aveva preparato anni addietro, una lepre cornuta che apparteneva al folklore americano – si diceva che persino Reagan avesse un testa (falsa) di lepre cornuta come trofeo nel salotto del proprio ranch. Sfilò così il copricorpo dalla valigia, si tolse il boitatá, indossò una lunga tunica composta da fibra di cocco e corna di legno. Uscì spavalda dal bagno, e qualcuno tra i più canuti parve riconoscerla, sostituendo allo sconcerto il turbamento: “Il jackalope! Un jackalope?”
Per tutto il percorso precedente alla ricerca di un telefono, Zoè aveva dato occhiate a quello che sarebbe stato il suo prossimo passo, e che ora la turbava come una deadline impellente: il deserto. Il centro era infatti adiacente a un’ampia distesa terrosa sulla quale rollavano covoni e altre sterpaglie come nei western. Il deserto stava sul retro ad aspettarla, invitante, minaccioso. Come avrebbe affrontato il deserto? Con quale copricorpo affrontare quello spazio assoluto, abraso?
Vicino ai bagni incontrò finalmente un rugginoso telefono. Tirò fuori un sacchettino di cents, compose il numero. Prima il prefisso per l’Italia, quindi quello per Pistoia, 0573… Dall’altro lato della cornetta, una figura si alzò da un banco da falegname, lasciando un pezzo di ferro battuto a brillare nella pallida lucina gialla della notte, solcata dai venti dei monti pistoiesi.
“Nò?”
“Zoé?”
“Ancora una volta, ho bisogno di te”.
“Oh bambina mia, a quest’ora? Che succede?”
“Sapresti consigliarmi sul deserto? Va bene la giungla brasiliana, van bene le lunghe avenue hollywoodiane, i lungomare californiani… Ma il deserto: da che parte lo prendo?”
Quella figura, nella notte pistoiese, stava con la cornetta appoggiata tra l’orecchio e la spalla sinistra, e a un tempo limava e soffiava su di un oggettino metallico dandogli forma, marcando delle avvitature.
“Il deserto, senti me, non lascia spazio all’immaginazione, oppure…”. E limava, e soffiava.
“Sì. Ma anche spicciati: al telefono piacciono un sacco i miei cents”.
“Il deserto”, e soffiò ancora, confabulante. “Nessun spazio all’immaginazione o: tanta immaginazione!”, esclamò soddisfatto. “Ricordi quando ti portavo da bambina giù per la collina sulla carriola piena d’erba? O ti mettevo sulle balle di fieno a riposare dopo che s’era governato le bestie? O quando ti nascondevi nei sacchi per i mangimi?”
“Certo. Sono sensazioni che mi passano ogni giorno sulla pelle, fra le narici, nelle orecchie. Come fossero un copricorpo invisibile, un passaporto che non ho bisogno di timbrare, ma che è sempre lì.”
“Ecco. Hai trovato la soluzione”.
Dopo aver salutato il nonno, che si rimise ridacchiando ad armeggiare, a soffiare sui propri arnesi, lontano migliaia di chilometri da quella giornata californiana lancinata di luce, prese la decisione che le parve più naturale: individuata un’uscita che doveva esser usata dai fornitori, sgusciò dal jackalope: si trovò nuda sulla soglia. Davanti a lei, il deserto roteava le sue balle di sterpi, si rassettava in certi spazi con folate di rena come aprendo delle branchie. Era un grande pesce, o un grande serpente, a tratti pelle coriacea di bisonte, per altri tratti qualche ciuffo d’erba fremente lo rendeva grosso pennuto. Dietro di lei stava invece un uomo-ciambella che l’osservava con gli occhi sgranati.
Ero io. Mi piaceva il mio lavoro. Vederla così, nuda, che si inoltrava nel deserto mi fece uscire di testa.
Dette un primo passo nella sabbia.
E il suo copricorpo più autentico le si appiccicò addosso: il solletico dell’erba, l’odore acuto di mangime, lo sbuffo caldo del naso di una bestia, o anche la neve sfatta, a Pistoia. Era pronta al viaggio nel deserto californiano.
Allungò l’altro piede.
Io feci due passi indietro, nessuno saprà dove mi sono nascosto in questo mio deserto dove ancora vago.


[Questa storia è ispirata alla vita latino-americana e alle opere dell’artista Zoè Gruni. Il termine “copricorpo” è da lei usato per descrivere le proprie opere-performance che indossa].

 

 

 

 

ZOÈ GRUNI
UFORA
Interview with Zoè Gruni


 

Ufora: What is the most important aspect of the relationship between you and your audience?

Zoè Gruni: I believe that growth and progress are possible only with faith in others and thru exchange and comparison. I’m interested in the spectator’s interaction to the point of transforming it into a true participation. The performance’s media helps me to gain knowledge of humanity within its various territories and to naturally connect with it. I build my images searching through the collective’s imaginary and trying to mix common stereotypes and symbols with my most intimate elements and personal memory. This is how the spectator will find a familiarity within the images that will stimulate him to also insert his personal point of view, and through this identification’s process, the artwork will in part become his personal experience too.

U.: Are you somewhat “nomadic” (by choice or necessity) and is this reflected in your work?

Z.G.: My artistic research is characterized by a strong interest for the human and anthropologic condition and this is inevitably linked to the territory. At the beginning of my career to research my own Country’ stories, those of Tuscany that is, digging into my own roots, was rather natural. But for the last year I have been a sort of nomad in part by choice and some by necessity, and that is absolutely reflected in my own work. Noticing how many symbols that are part of a local reality, often end up linking us to a more global one fascinates me. I deeply believe in the comparison between different cultures and in the possibility of a common development.

U.: Does art require an existence separate and distinct from mass media, popular entertainment, daily life?

Z.G.: What I have in mind is that neckline between past and present; that crater where temporal interruption materializes and where that feeling of fear resides. In the past the chance to live in similar places and situation allowed man to share doubts and fears with its fellow man. The collective dimension guaranteed a psychological and moral support that nowadays appears impossible, so clearly contrasted by a more individualistic society.
I believe that the recovery through the art of a collective memory could be a social and a political objective, a chance to react to the fear that immobilizes us, an exorcism of sort. Our mass-medias constantly report terrible news, threatening constant alarm, and I’m wondering whether this might really be a way to spread security or rather to maintain matters under control…actress declaimed poetry.


UFORA Universal Festival of Relational Art
Curated by Dalibor Polivka, Rob Mintz

 

 

 

 

Zoè Gruni
Enrico Pedrini
Interview with Zoè Gruni


 

Enrico Pedrini: It’s not so much at human mind to envisage the analyse in detail of thought contents (which in Art we indicate as conceptual) but rather participate to life and thing’s events. Putting on in the listening of things, the man expose him to hers more than he impose him.
This come from research a new identity desire, of appurtenances in a territory and culture context search . By his vitality, an artist search therefore in resist, by his work, to a world which want to throw back him as presence and human riches. His mind will be then the place of trace’s variety, of case, which co-exist while sharing. What are the reasons which have shoved you towards a work as yours?

Zoé Gruni: More than reasons, I can say that i answered emergency. I have started my artistic work during the adolescence, from a really instinctive manner, nearly brutal. It be certainly a question of reaction (probably unconsciousness) in the exuberant approval.
My answer couldn’t be an intimate cogitation on identity and on memory.

E.P.: Electonic’s medias have with no doubt changed in depth the characteristics of a place or of his space. Whereas, they change the side’ informative characteristics, medias re-models situation and social modalities, while minimizing place’s value like safe systems of information. Consequently each person seem to play several role on different stages, giving to every public a different sight.
This exigency to express you by diverse languages, like performance, photography, objects and video, does it come to you from this aptitude for the multimedia ?

Z.G.: Multimediality of my work comes to me from the exigency of tell since several points of view, not only one, given active presence of production body. Then the different mediums serve, in various phases, to express the same thing. Drawings as the idea, sculpture as the maxtrix, performance as the action and, consequently, video as documentation’s instrument and photography as last picture.

E.P.: Your work make me think in an event which made place in Toscane, during last centuries and that we called Veglia. Rustics meets from time to others in diverse farms where they gives life in ‘ convivial ’ meetings in three phases : in the first part of the Veglia, participants disputed real and practical problems of their work ; the second part was a competition between those who arrived in make fun with the most intelligence and trick of divers village’s habitant ; the third and last part of this meeting became a real competition between those who best decalimed poetry and diverse autors, as Dante, Alighieri, Petrarca, Bocaccio, etc. . .Then, it be question of a kind of interdisciplinary declamation’s performance, rich in interaction. Your work appear me linked in this liberty multicultural spirit, which is a Toscane characteristic.
What are the points of contact between Veglia and your production’s language ?

Z.G.: There is several points of contact, for example, the manual job and the choice of a poor or functional substance, the hemp, which offer infinite resources and that, as hog, we totally use.
A material which comes from two dimensions to three, when he spouse the body’s form, until becoming a real personality, sometimes recognizable ( bishop, warrior, spouse, judge…). Interchangeable characters that we endorse and which need to tell by different mean and languages.
It’s not an hazard if, following their own natural evolution, productions have became spectacles. It had become necessary to divide, exchange, participate.
In the spectacle “Entretiens avec la Pierre” (Roselle, Grosseto 2007) realised in a old abandoned quarry, the sculpture (brought back in music and theatre) played all surrounded by public (like in Metao) while an actress declaimed poetry.

E.P.: Your activity is really significative all right more by the attachment to your cultural roots than to nature or to body. Your physic engagement expressed him by an original expression every time recognizable, where numerous elements enter stage and interact.
Can you bring me a clarification regarding implements across which you formulate your pictures ?

Z.G.: Images is never totally clear for starting. She often leaves from an emotive implication; that it was a form, an atmosphere, an private vicissitude, an experience, a trip, a novel… My desire to communicate with others strike me to dissolve subjective images of my memory with the usual forms of collective memories. I experiment with body, I incorporate me to the image for after deliver her in space.
It’s the only moment where I have phantasm to succeed in putting a little of synthesis in my chaos.

 

 

 

 

Zoè Gruni
Le petit interview intempestif de Zoè GRUNI
par Jean-Paul Gavard-Perret


 

Qu'est-ce qui vous fait lever le matin ?
La curiosité.
(La curiosità).

Que sont devenus vos rêves d'enfant ?
Depuis l'enfance je rêvais de voyager, de devenir une artiste et une contorsionniste et je n'ai jamais oublier de rêver…
(Da bambina sognavo di viaggiare, diventare un'artista e una contorsionista e non ho mai smesso di sognare…)

A quoi avez-vous renoncé ?
A devenir une contorsionniste. Car je ne suis plus aussi agile qu'avant...
(A diventare una contorsionista, purtroppo non sono più snodata come una volta…

D'où venez-vous ?
Europe – Italie – Toscane – Pistoia.
(Europa - Italia - Toscana – Pistoia)

A qui n'avez-vous jamais osé écrire ?
J'ai toujours écrit lorsque je n'osais pas parler.
(Ho sempre scritto quando non ho osato parlare).

A quoi avez vous renoncé pour votre travail ?
A la stabilité économique età un peu d'ennui sain...
(Alla stabilità economica e a un po' di sana noia…)

Qu'est-ce qui vous distingue des autres artistes ?
Tout ??? Dans le fond comme chaque artiste et mêrme comme tout individu.
( Tutto??? infondo ogni artista è innanzi tutto un individuo…)

Où et comment travaillez-vous ?
En ce moment je vis et travaille à Los Angeles, actuellement dans un loft du Berverly Complex au sein d'un programme de résidence d'artiste auprès de Raid Projects. Je construis mes images afin de fonder ma propre mémoire à travers des éléments de l'imaginaire collectif à travers un processus multidisciplinaire composé de plusieurs phases : projet, travail manuel, performance et enfin documentation photographique et vidéo.
(In questo momento vivo e lavoro a Los Angeles, attualmente in un loft del Brewery Complex, all'interno di un programma di residenza artistica presso Raid Projects. Costruisco le mie immagini cercando di fondere la mia memoria personale con elementi dell'immaginario collettivo, attraverso un processo multidisciplinare composto da diverse fasi: progettazione, lavoro manuale, azione performativa e infine documentazione fotografica e video).

Quelle musique écoutez-vous en travaillant ?
Pendant la phase de projet j'ai besoin de silence pour aider la concentration mais au moment où je passe au travail pratique j'écoute de la musique rock.
( Durante la fase progettuale del lavoro ho bisogno di silenzio per aiutare la concentrazione ma nel momento in cui passo al lavoro pratico ascolto musica rock.)

Quel livre aimeriez-vous relire ?
« Le présent liquide » de Zygmunt Bauman
( « Paura liquida » di Zygmunt Bauman.)

Qui voyez-vous lorsque vous vous regardez dans votre miroir ?
Parfois une gamine, parfois une vieille femme, cela dépend de l'humeur…
(A volte una bambina, altre volte una vecchia; dipende dall'umore…).

Quelles sont les tâches ménagères qui vous pèsent le plus ?
Toutes, elles abîment mes mains qui le sont déjà suffisamment !
(Tutti, uso le mani già abbastanza!)

Quels sont les artistes dont vous vous sentez la plus proche ?
Louise Bourgeois et Franz West ont été mes grands points de référence. Une rencontre humaine très importe fut celle de Carol Rama lors de ma thèse à l'Académie des Beaux Arts. Dans le panorama contemporain je me sens particulièrement proche du travail de Barlin De Bruyckere.
(Louise Bourgeois e Franz West sono stati per me grandi punti di riferimento. Un incontro umano molto importante è stato quello con Carol Rama, in occasione della mia tesi di laurea presso l'Accademia di Belle Arti. Nel panorama contemporaneo mi sento particolarmente vicina al lavoro di Berlinde De Bruyckere).

Que voudriez recevoir pour votre anniversaire ?
Le petit sac à main de Mary Poppins où toutes mes œuvres pourraient rentrer sans avoir besoin de recourir à FedEx !
(La borsa di Mary Poppins dove tutte le mie opere possano entrare senza bisogno di ricorrere a FedEx!)

Que défendez-vous ?
La dignité, le respect et la liberté de choisir sa propre existence.
(La dignità, il rispetto e la libertà di scegliere della propria esistenza).

Que vous inspire la phrase de Lacan : "L'Amour c'est donner quelque chose qu'on n'a pas à quelqu'un qui n'en veut pas"?
Cela me convainc du continuer à travailler sur l'identité et sur le sens de « faute », j'espère tout doucement comprendre quelque chose de plus au sujet de ce grand thème.
(Mi convince di continuare a lavorare sull'identità e sul significante "fallo", sperando piano piano di capire qualcosa in più di questo grande tema…)

Enfin que pensez-vous de celle de W. Allen : "La réponse est oui mais quelle était la question ?"
Simplicité et auto-ironie, ce qui est le plus difficile et fondamental.
(Semplicità e autoironia, ciò di più difficile e fondamental.)